Lo sguardo verticale

(…) La ‘svolta’ è prima di tutto un momento di fibrillazione, di crisi e di risemantizzazione delle nozioni che stanno alla base di quello che potremmo definire il comportamento figurativo dell’Homo Sapiens, cioè la sua capacità di frasi immagini, comunicarle, di usarle socialmente.
(…) Quando i comportamenti che riguardano le immagini (…) entrano in crisi, assistiamo a un Pictorial turn, un fenomeno che ricorre nel tempo quando, ciò che riguarda le immagini subisce una metamorfosi di cui non si scorgono gli esiti.*

In Occidente leggiamo da sinistra verso destra, le pellicole fotografiche sono quadrate o rettangolari, il cinema è rettangolare, allo stesso modo i libri, le riviste, lo scrivere, tutto è orizzontale, anche gli schermi dei pc e questo perché ricalcano il nostro modo di guardare.
Possiamo ormai parlare al passato e porre la fine di questo passato nel momento in cui i primi smartphone hanno iniziato a circolare, favorendo, via via, un regime scopico sempre più votato al senso verticale. Ad aver sancito il verticale come coinquilino (quando non unico abitante del nostro sguardo) non è stato tanto lo scrollare del cellulare quanto le Stories di Instagram. I media dettano il formato della nostra comunicazione, in senso professionale e anche personale, formattandoci, letteralmente, anche in senso cognitivo, nel senso che questo fenomeno ci fa pensare subitaneamente di scattare dal telefono una foto verticale (con la macchina fotografica questo movimento è quasi innaturale, bisognava addirittura allenarsi a non muoversi durante lo scatto, almeno fino a qualche anno fa, ora con la definizione delle macchine di ultima generazione è probabile che non ce ne sia più bisogno): il senso orizzontale non è più quello naturale e questo riguarda anche il nostro rapporto col pollice opponibile e l’uso delle mani. Dalla cognizione al senso motorio.

Dopo la ‘verticalizzazione dello sguardo’, favorita dall’uso dei Social, probabilmente potremmo dire di assistere, attualmente, ad un ulteriore turn** dello sguardo e quindi anche inevitabilmente cognitivo: la visione zenitale, dall’alto. L’uso dei droni in fotografia e nel cinema sta radicalmente cambiando il nostro modo di rapportarci alla visione, penso ai primi film e serie che ho guardato di questo tipo come ‘La Isla Minima’, ‘True Detective’ 1 e 2. In campo documentario la BBC detta le regole estetiche e i suoi documentari restano tra gli imbattibili, sebbene ci siano i film di Xaviere Lefebre, francese, che si difendono bene. Sulle produzioni documentarie della tv italiana mi avvalgo di quello che faceva Mimmo Jodice a casa: non si guardavano programmi fotografati-girati male. Non è un caso che stia andando a parare sul genere documentario per parlare di visione zenitale, perché a mio avviso cambia il nostro rapporto scopico e magari anche coscenziale con la natura. Vedere le cose dall’alto ci aiuta ad astrarle, di qualsiasi tipo esse siano, ma la visione della natura è la versione più fertile e congeniale a me. Torno comunque a citare la famiglia Jodice perché ci sono delle foto di Francesco Jodice fatte col drone o prese dai satelliti che sono pura poesia, sebbene parlino di città e antropizzazione. Quindi si cade sempre bene.

Un grande pioniere di questo tipo di visione, che offre tematiche ambientali attraverso un punto di vista privilegiato, offrendo così una ‘sorpresa produttiva***’, è Edward Burtinsky che da anni lavora con la visione aerea (anche prima dei droni).
C’è una lezione del corso di letteratura e fotografia dove ne parlo approfonditamente. All’apparenza sono foto e tematiche molto lontane dall’ambiente foto-letterario, tuttavia, offrono degli spunti per parlare di qualcosa senza la quale la letteratura e la fotografia non si potrebbero praticare un granché: l’immaginazione. Sì, perché è facile indignarsi davanti a documentazioni fotografiche che mostrano disastri – probabilmente non lo faremo neppure più, tanto siamo assuefatti ad immagini di devastazioni – farlo con fotografie di questo tipo, probabilmente ne aumenta l’impatto: guardiamo una foto meravigliosa di qualcosa che spesso non lo è (Burtinsky parla prevalentemente di disastri ambientali).

Questo turn, offerto dai droni e dalla fotografia aerea presenta i caratteri di un’astrazione della fotografia molto profonda: vengono alla luce le assonanze con una certo tipo di pittura, minimalista e colorata, di grande formato, cose quanto più lontane dalla documentazione ambientale eppure così utili a ridimensionarci nei confronti di Madre Natura, di questa Terra che abbiamo spolpato e tutt’ora continuiamo a farlo, sentendocene un po’ i padroni. Oserei dire che, a tratti, questo modo di documentare i disastri sia quanto mai necessario poiché aiuta a dimostrarne la portata. D’altro canto, mostrare la Terra e i suoi paesaggi in tutta la loro magnificenza ha un sapore che sa di nuovo e si chiude il cerchio perché anche questa ci aiuta a prende coscienza, di avere cognizione.
La fotografia aerea, permette, di offrirci nuove visioni, in un tempo dove tutto è già stato visto, un po’ come la celeberrima foto della Terra vista dalla Luna. Dicono che la coscienza ecologista sia nata da quella foto: l’umanità si è vista, insieme, per la prima volta, guardandosi in un’occhiata da fuori. Penso al pensiero Vedico che suggerisce l’osservatore come diverso dall’osservato e pertanto sancisce che siano due cose diverse. Le fotografie aeree, specialmente nella versione più straight, quella zenitale, possono aiutarci a stupirci ancora del nostro mondo, sollevare molti s-punti di riflessione e di creatività.

Le foto di Stefano Pannucci****, che la Terra la conosce bene, in quanto geologo, si offrono privilegiate all’osservazione di molti, mostrando, scorci e astrazioni del nostro territorio. Queste foto dell’Alcantara, come il resto della produzione di Stefano, regalano scorci e spunti nuovi, quindi la possibilità di affacciarsi in nuove storie, esattamente con la curiosità e l’entusiasmo e la creatività di uno studioso, scienziato o artista che sia, mai stanco di scoprire e lasciarsi imbrigliare tra le pieghe, nuove e anche inedite, della realtà immanente che tutti continuiamo a sottovalutare sempre troppo, dandola per scontata e immutabile.

Penso che il turn dato dalla fotografia aerea con i droni sia l’input che da tre anni mi ha fatto imbarcare in una ricerca che porto avanti ancora sommessamente, una sorta di fiume sotterraneo ma che dovrei esporre presto dal vivo: lavorare su photo trouvè aeree, stamparle in bianco e nero, colorarle a mano e stamparle su supporti, però diversi dalla fine art, come fatto fino ad ora.
La riflessione che porto avanti è sempre quella nata con le prime foto dell’Etna colorate a mano: la perdita di definizione tra immagine retinica-disegno perché sono immagini fotografiche vere e false insieme. Unitamente alla perdita di dettaglio in fase di stampa e i segni di stampa tipici della stampante, la fotografia e il disegno di fondono.
Da lungi sto lavorando sul concetto di confine e questo processo mi permette di trascendere il vero e il falso: sollevandomi dal confine fotografia-disegno ho una nuova visione, quella aerea garantita dal turn di questo momento storico; quella mia che attraverso la colorazione delle foto offre una nuova veduta, una possibilità di azione prima (quella che intraprendo io, nel processo) e di visione.

Qui qualche bozzetto.

*Cultura visuale, M. Cometa; Raffaello Cortina Editore
**Pictorial Turn, W. J. T. Mitchell; Raffaello Cortina Editore
***Crf.: ‘Sorpresa produttiva’, J. Bruner
**** idf/fanzine #2, Incontridifotografia, 2022.

 

 

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